Non tutte le cimici vengon per nuocere

Una donna di mezza età (e anche qualcosa di più) trascinava in solitudine un altro sabato pomeriggio.
Dopo trent'anni, il marito se n'era andato con una maratoneta russa assai più giovane di lui, con gli occhi così azzurri che li potevi guardare solo con gli occhiali da sole. 
Almeno così diceva lui.
Nei tempi precedenti allo strappo definitivo, lui aveva smesso di fare le cose che faceva prima, tipo leggere libri, guardare film e discuterne, eccetera. Aveva invece cominciato a ruminare semi e frutta secca, a vigilare sulla sua alimentazione come un suricato in allerta e si era comprato scarpette e completini sportivi da corsa.
Alla fine se n'era andato.
Quel sabato la donna era particolarmente depressa e in preda ad una perniciosa propensione a lasciarsi andare.
Alla fine si era costretta a portare il cane a passeggio e l'entusiasmo del quadrupede non l'aveva minimamente contagiata, come a volte riusciva a fare.
Al ritorno, sulle scale si era imbattuta una cimice rovesciata sulla schiena che stava probabilmente rinunciando a combattere dopo chissà quanti tentativi di ribaltarsi e volare verso lidi più gradevoli.
La donna vi si vide in qualche modo riflessa e decise di aiutarla.
La toccò con l'indice e le zampette dell'insetto subito si aggrapparono a quell'insolita scialuppa di salvataggio, ma una volta riguadagnata la posizione corretta, non sembrò intenzionata a muoversi. 
La donna rientrò in casa con la cimice sul dito con l'idea di posarla sul corrimano del balcone. Che decidesse lei dove andare.
Rimase un attimo ferma a guardare quell'esserino che tremava un poco sulle zampe. Immaginò che stesse riprendendo fiato e improvvisamente, l'idea del cornicione non le sembrò più così buona.
La posò invece su una grande pianta di ficus che aveva in casa e cominciò a pensare a come rendere migliore la sua vita, per quanto breve potesse essere.
Cercò su internet ogni informazione possibile sulle cimici e sulle loro abitudini e immediatamente scoprì che, se non voleva danneggiare la pianta, doveva immediatamente toglierla da lì. La mise provvisoriamente in una scatola di cartone con delle foglie di tarassaco come nutrimento.
Nella sua ricerca si imbatté in un entomologo toscano di mezza età (e anche qualcosa di più) che molti anni addietro aveva fatto una tesi di laurea proprio sui principali insetti fitofagi ed era una autorità nel suo campo.
Cominciarono una fitta corrispondenza in cui la donna ricevette tutte le indicazioni su come gestire la cimice cui aveva dato il nome di Clarice. 
La corrispondenza passò presto dal trattare temi entomologici ad argomenti più generali e successivamente personali. Nel corso di questi scambi, ad un certo punto, nonostante le cure ed una certa grinta di cui la creatura non era sprovvista,  Clarice, la cimice, lasciò la sua valle di tarassaco per raggiungere il paradiso degli insetti.  Cosa che fece versare qualche lacrima alla donna, prontamente consolata dall'entomologo gentiluomo.
Qualche mese dopo, in corrispondenza delle feste di Natale, l'uomo, ormai intrigato dalla donna che si era presa tanta pena per una cimice,  la invitò ufficialmente a trascorrere le vacanze nell'incantevole paesino toscano dove viveva. Una volta lì,  i due si dimenticarono per un po' degli insetti e si dedicarono ad altre più entusiasmanti scoperte. 
Quel periodo coincise anche con la decisione dell'uomo di spostare il suo interesse dagli insetti fitofagi ai lepidotteri. Insomma le farfalle.
Si sposarono nel mese di luglio di quello stesso anno. Mese che vide, nei prati e nei giardini,  un insolito affollamento di iphiclides polidarius. 
Lo considerarono di buon auspicio.








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