Emma salvata da un gatto
Emma
ha paura di sbagliare. Cosa? Qualsiasi cosa.
Ha
paura del disordine, dell’imprevisto che porta fuori strada, del difetto che
rovina l’insieme.
E alla radice di questo c’è la paura del giudizio degli altri, del voto insufficiente della sua comunità, del segno rosso sulla sua vita. Perciò Emma ha pianificato la sua vita nei dettagli, lasciando fuori tutto ciò in cui sa di non poter raggiungere la perfezione.
La
sua casa è un modello di ordine, quindi niente animali che possano graffiare i
mobili, sporcare per terra, ciancicare il divano. Nel giardino c’è un prato
all’inglese con due file di fiori perfettamente allineati e un albero sotto il
quale pulisce quotidianamente.
Nel poco tempo libero lasciatole dal lavoro e dai quasi incessanti lavori domestici, Emma dipinge. Finalmente qualcosa di estroso, direte voi! Sbagliato. Emma dipinge da sempre lo stesso paesaggio con trascurabili variazioni: montagne in lontananza, fila ordinata di colline, laghetto. In quello ritiene, con una certa soddisfazione, di aver quasi raggiunto la perfezione. Le piacerebbe ogni tanto introdurre un albero fiorito, uno stormo d’uccelli in volo, un daino che si abbevera, ma sente che sarebbe un disastro e allontana quella tentazione come fosse un insetto fastidioso.
Una
volta si è persino soffermata sull’audace possibilità di ritrarre un vulcano in
eruzione. Per un istante l’idea del miscuglio dei rossi di un fiume di lava le
ha quasi tolto il respiro. Un istante, appunto. Un’energica strofinata
all’argenteria le ha placato ogni velleità.
In
questo mondo perfetto c’è un neo: Giovanni, suo marito, che si ostina in tanti
modi, impercettibili agli altri, ma evidentissimi a lei, ad intaccare tanta
perfezione.
Giovanni
ce la mette tutta a vivere secondo le sue regole, credetemi. È perfettamente
addestrato ad abbassare la tavoletta del water e a muoversi con le pattine
senza fare rumore né sporco, ma purtroppo non c’è giorno in cui non commetta
qualche imperdonabile reato agli occhi di Emma. L’ultimo qualche giorno fa.
Ha
comprato un mazzo di rose per lei. Una sorpresa senza motivo, solo per riuscire
a vederle di nuovo quel sorriso che l’ha fatto innamorare tanto tempo fa.
Le
ha messe in un vaso mentre lei non c’era e l’ha posato al centro del tavolo.
“Così le vede subito” ha pensato. Poi ha scritto un biglietto e glielo ha messo
accanto. Pianificava di nascondersi in camera e vedere la reazione al suo
ritorno, ma Emma è tornata prima del tempo e non ha visto subito le rose. No.
Ha visto schizzi d’acqua per terra e qualcuna anche sul tavolo. Due per la
precisione. Le rose le ha poi notate, ma ormai non aveva più importanza, Emma
aveva già cominciato a sgridare il marito.
Giovanni per un attimo non ha detto niente. Si guardava i piedi. Poi si è
girato e, inseguito dalle proteste di lei, è andato in camera, ha messo insieme
una valigia piccola, si è messo gli scarponi da lavoro e ha lanciato le pattine
attraverso la stanza, una dopo l’altra come due aeroplanini di carta.
Si
è infilato il giaccone e prima di uscire l’ha guardata negli occhi (lei si era
zittita dopo il volo delle pattine). “Me ne vado a stare nel capanno nel bosco.
Questa casa è una prigione e non credere di non essere un carcerato anche tu.
Se decidi di cambiare sai dove trovarmi.”
E,
del tutto inaspettatamente dopo tanta calma, se n’è andato sbattendo la porta.
Emma
è rimasta immobile a fissare l’uscio per un tempo indefinito. Poi si è girata
verso la stanza è ha detto “Bene”. Pareti e mobili non hanno risposto, almeno
niente di udibile ad orecchio umano.
Emma
ha ripreso la sua vita fatta di ordine e gesti sempre uguali.
Le
rose sono rimaste sul tavolo per giorni insieme al biglietto che è rimasto
chiuso. Alla fine è rimasto solo il biglietto. Emma si accerta semplicemente
che sia lì, ma non lo apre.
Nel
corso dei primi mesi la soddisfazione che tutto fosse sempre perfettamente a
posto le ha fatto una certa compagnia. Poi si è fatto subdolamente strada un
vuoto senza nome. Il vuoto è diventato malinconia. Poi tristezza. La notte quando posa la testa sul suo cuscino
immacolato Emma piange sempre prima di dormire. Poi il mattino dopo, il lavoro
e le incombenze quotidiane la distraggono.
Un
giorno però, al rientro a casa nota che la finestra è parzialmente aperta. Il
suo cuore accelera i battiti perché forse Giovanni è tornato. Quando entra finalmente in casa lui non
c’è, ma Emma ha un altro motivo per restare senza fiato. In casa sembra che sia
passato un tornado. Anzi due.
Non
c’è più una singola cosa a posto. Sedie e vasi rovesciati, libri e carte ovunque.
Appeso alle tende come Tarzan c’è il
grosso gatto a cui Giovanni dava qualche volta da mangiare, ma che lei non ha
mai voluto in casa. Il micio guarda compiaciuto la scena e pare davvero
complimentarsi con se stesso per la nuova sistemazione della stanza.
Emma
si aggira in quello scenario apocalittico guardando qua e là senza parole.
Poi
si ricorda del biglietto e come impazzita comincia a cercarlo spostando
soprammobili in pezzi, centrini strappati e libri rovesciati. Dopo una ricerca
che sembra eterna lo trova, si siede sul pavimento e finalmente lo apre. Ci sono scritte solo due parole. Anzi, in
realtà la parola è una perché come al solito Giovanni ha scritto i caratteri
vicinissimi uno all’altro e le due parole sembrano una sola: amoremio. Con una calligrafia sottile e
delicata che non sospetteresti appartenere ad un omone come lui. Amoremio.
Emma
lo legge e lo rilegge neanche fosse una lettera di quattro pagine, poi…scoppia
a piangere forte. Piange finché le vengono quasi meno le forze. Poi, come presa
da un impulso improvviso, si asciuga le lacrime con un gesto deciso, si alza, recupera
un vasetto di colore, rosso per la precisione, e lo scaglia con tutta la forza
contro il muro.
Meraviglia!
Se non è un vulcano poco ci manca! Allora scaglia anche gli altri colori e
quando ha finito sente di aver dato un nuovo significato all’espressione arte
moderna.
Nel
frattempo il gatto è sceso tranquillo dalla tenda completamente lacerata, ha
intinto le zampe nel rimasuglio di colore azzurro è si è diretto verso la porta
con l’incedere di un sovrano lasciando sul pavimento orme di cielo. Lei gli ha
aperto e l’ha salutato con un inchino buffo.
Nei
giorni successivi Emma si è impegnata in una piccola rivoluzione.
Si
è tagliata i capelli da sola un po’ qua un po’ là, poi se li è tinti di blu con
un tocco di giallo oro sulle punte. Quindi ha tirato fuori dagli armadi i suoi
vestiti e, con ago, filo e forbici, ha operato grandi trasformazioni. Ogni
volta che la parola perfezione si è affacciata alla sua mente, l’ha scacciata realizzando
d’istinto accostamenti improbabili.
La
gonnellina svasata del tailleur è diventata un gonnone da zingara multicolore,
la giacchetta è stata privata delle maniche e ricoperta di bottoni di ogni
forma e dimensione. Sotto, una camicia messa insieme con pezzi di altri abiti.
Con uno strofinaccio da cucina giallo zafferano si è fatta una sacca sui cui ha
dipinto un gatto molto somigliante a quello che le ha sfasciato la casa.
Così
abbigliata ha lasciato la casa e si è diretta verso il capanno nel bosco. Ad
ogni passo respira meglio, Emma, le spalle sono più dritte, la testa più alta.
Giovanni
è seduto su una panca davanti al capanno. Ha una barba lunga e incolta, i
capelli arruffati gli arrivano quasi alle spalle. Sta intagliando un pezzo di
legno con un coltello. Il gatto distruttore è sdraiato ai suoi piedi in una
lama di sole. Giovanni è così intento che non si accorge della figura che si è
avvicinata.
“L’hai
mandato tu il gatto?”
L’uomo
alza lo sguardo e vede davanti a sé una zingara bislacca coi capelli blu.
Si
stropiccia gli occhi. “Come? Cosa?”
“Il
gatto” ripete piano lei “l’hai mandato tu?
“Quale
gatto? Quando? Dove? Come?”
“Il
gatto è quello lì. Quando tre giorni fa. Dove a casa nostra. Come dimmelo tu.”
“Scusi
ma io non capisco un accidente…” e sulla parola accidente si accorge che la zingara bislacca è sua moglie e quasi gli viene un colpo.
“Comunque,
tua o no è stata una buona idea. La casa…la prigione è distrutta e io sono qui” aggiunge lei lasciando vagare lo sguardo intorno.
Giovanni
non risponde niente, un po’ perché non sa di che cosa stia parlando, un po’
perché è abbagliato da tutto quel colore e dagli occhi di lei che scintillano
come non mai.
“Sono
qui” ripete lei “se mi vuoi ancora”.
E
siccome lui è ancora pietrificato, lei fa per andarsene e solo a quel punto lui
si riscuote, la prende per la mano e le dice “Tu non vai da nessuna parte” Un
sussurro senza pause tunonvaidanessunaparte.
Poi aggiunge “Senza di me”.
E
si guardano per un tempo infinito prima di cominciare a raccontarsi tutto di
quei sei mesi da soli e poi dell’epica impresa del gatto. Ridono fino a restare
senza fiato e poi piangono un pochino e poi ridono ancora. Poi, siccome nel frattempo s’è fatta notte,
entrano nel capanno tenendosi per mano.
Il
gatto li segue con lo sguardo, la coda puntata verso il cielo.
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